23 Avr 2004, 00:55
23 Avr 2004, 01:45
23 Avr 2004, 01:49
burton a écrit:STF mdr, y a meme omenforce.
Que des loosers a la STF
23 Avr 2004, 01:59
23 Avr 2004, 03:22
23 Avr 2004, 08:52
23 Avr 2004, 09:19
Moonwalker, t'avais que sa a foutre ????
Moonwalker salut toi, le specialiste
23 Avr 2004, 09:27
Baioko a écrit::shock:
Moonwalker, t'avais que sa a foutre ????
23 Avr 2004, 09:37
Moonwalker a écrit:Gertrude Stein e Fernande Olivier hanno raccontato, ciascuna a suo modo, quel che accadde nello studio di Picasso in rue Ravignan a Montmartre, nell’autunno del 1908, quando il ventisettenne pittore invitò tutti gli amici per un banchetto in onore di Rousseau il Doganiere, pittore che egli apprezzava e del quale aveva anche acquistato per cinque franchi il grande Ritratto di Yadvigha che era stato esposto al Salon des Indépendents nel 1896 per finire poi nella bottega del rigattiere père Soulier dove egli l’aveva appunto scoperto.
La mitica festa fu fatta in occasione della collocazione di quel quadro nello studio del Bateau-Lavoir di cui ha lasciato una immagine abbastanza fauve il cugino dello stesso Picasso, Manuel Blasco, che vi ha dipinto tutti gli intervenuti segnandone anche i nomi in un cartiglio retto da due topini neri tra due volute fitomorfe che nascondono un gatto nero e un cagnetto bianco.
Il quadro è intitolato Honneur à Rousseau e, tra i tanti particolari minuziosi che descrivono l’arredo, il festeggiato col suo strumento musicale al centro del convito e gli ospiti che affollano la grande tavola imbandita, si notano, inoltre, appoggiati alla parete destra della stanza addobbata con serti e bandiere, due quadri dello stesso anfitrione seduto alla destra dell’ospite d’onore.
Vi si riconoscono Uomo e cavallo del periodo blu e Les Demoiselles d’Avigon oggi conservato al Museum of Modern Art di New York e considerato, giustamente, la pietra miliare di tutta la pittura contemporanea poiché vi si mettono in gioco cubismo e surrealismo, espressionismo e arte primitiva, fauvismo e classicismo, arte egizia, espressionismo e quant’altro si è sperimentato in arte nel corso del XX secolo di cui Picasso è stato protagonista con la sua incredibile creatività e un linguaggio capace di rinnovarsi continuamente restando fedele alla sua ansia conoscitiva ed espressiva che ha dato forma allo spazio e una nuova dimensione al colore anche quando esso si riduce al bianco e al nero dei disegni e delle incisioni.
Iniziato nell’anno precedente, il quadro che originariamente era stato intitolato Le bordel philosophique era ancora in cantiere e vi sarebbe rimasto per parecchi altri anni (ma, come sappiamo, rivolto contro la parete dello studio) poiché, per la sua lunga e complessa vicenda compositiva, avrebbe subìto molti ripensamenti, restando l’incompiuto più famoso del ‘900, fino ad assumere il ruolo di manifesto della “poetica della forma picassiana”, del suo particolare cubismo e di quel suo surrealismo ante litteram che, intrecciandosi imprevedibilmente nel divenire della sua coscienza della visione, diventano l’alfabeto chiave del suo linguaggio e delle sue iperboliche variazioni e invenzioni cui quasi tutta l’arte contemporanea è debitrice.
Non era certo un caso se tra i presenti, in quell’ormai leggendario banchetto “fotografato” dal dipinto di Blasco, ci fossero anche Braque e Apollinaire, Max Jacob, André Salmon, Jacques Vailard e più di venti altri artisti e intellettuali che vivevano a Parigi, allora punto di riferimento della cultura internazionale.
Non a caso i biografi dei due pittori citano l’episodio e molti critici vi si riferiscono quando intendono ricostruire l’ambiente nel quale esplose la lezione di Cèzanne e si prospettò quel nuovo linguaggio che Picasso elaborò autonomamente e conservò nel corso della sua lunga esperienza di pittore, disegnatore, incisore, scultore che, anche nella grafica e nella ceramica, ha lasciato una eredità ancora non del tutto compresa nelle sue valenze e significazioni rispetto all’estrosa ripetitività, alla vastità della sua produzione e alla versatilità del suo segno inconfondibile e sconcertante.
Congrès Mondial. Moscou, litografia 1962.
Osservando da vicino le trentatré opere raccolte dal Centro d’arte Raffaello di Palermo, ed esposte oggi nel piano nobile di Villa Niscemi, è possibile verificare la sconcertante modernità di questo suo segno che è insieme visionarietà e forza immaginifica proiettata nel divenire della coscienza estetica contemporanea, e si può cogliere, tra ironia, erotismo, demistificazione e denuncia, il messaggio atemporale che il quasi novantenne pittore (la maggior parte delle opere sono del 1968 e una del marzo 1971) sa ancora trasmettere, con immutata vitalità e coerenza poetica, la sua verità di artista non convenzionale che ha fatto della sua pittura una bandiera di libertà. Il riferimento al “quadro del banchetto” nasce, comunque, dal fatto che in quell’occasione Rousseau, rivolgendosi all’amico che tanto lo onorava, ebbe a dire: «Picasso, lei e io siamo i più grandi pittori del nostro tempo. Lei nel genere egizio, io nel moderno». Una frase bizzarra che ancora oggi resta poco chiara a chi non abbia osservato che proprio il personaggio del marinaio che sta al centro della tela delle Demoiselles e quello seminascosto dalla tenda sono rappresentati alla maniera delle figure dipinte nelle tombe dell’antico Egitto.
Certamente la risata dovette essere generale, ma non so quanto condivisa l’affermazione del Doganiere da parte degli altri convitati. Comunque, ingenuità o boutade che fosse, il giudizio critico di quel “pittore della domenica” poteva certo riferirsi alla incomprensibilità apparente dell’opera di Picasso che così si apparentava ai geroglifici egiziani graficamente semplici e inaccessibili, razionalmente chiari ma ambiguamente figurativi. Poteva, però, anche alludere alla distruzione totale di quella prospettiva classica che, come affermava lo stesso Picasso, non rappresentava il noto e la totalità ma l’apparente realtà percepita secondo una visione univoca e naturalisticamente imitativa. Il processo era già iniziato con Cézanne e le sue idee rivoluzionarie di spazio e forma e, per quanto riguardava il colore, sulla scia di Van Gogh e Gauguin da Matisse e dai Fauves; ma solo l’ardente pittore spagnolo brucerà nel rogo della sua originale esperienza ogni divario e ogni possibile formulazione teorica che possa distinguere nella sua opera le varie componenti che determinano l’unicità del suo stile e la complessa semplicità della sua poetica che, come la teoria della relatività di Einstein, legge e dilata l’universo della rappresentazione con una logica altra e una geniale intuizione destabilizzante e creativamente aperta al divenire dell’arte e della storia umana.
Dalle Demoiselles in poi, i due versanti della rivoluzione pittorica trovano, infatti, in Picasso il ricercatore e il cantore instancabile di quella verità umana, espressa con la sua originale sintesi estetica che coincide con l’evolversi stesso della sua arte capace di rappresentarla nelle sue contraddizioni e lacerazioni, compresi i ritorni, gli errori e la continua rimessa in gioco dei risultati raggiunti, di fronte ad una verità sempre nuova e mutevole che sa nascondersi nelle forme in cui appare .
Ricordiamo tutti l’icastica dichiarazione del pittore: “L’arte è una menzogna che ci fa comprendere la verità”, ma bisogna aggiungere, come corollario indispensabile, che Picasso ha sempre dipinto, disegnato o scolpito ciò che ha visto e sentito, mutandosi continuamente secondo il flusso vitale in cui scorre la verità stessa «o almeno quella verità che siamo in grado di comprendere», come egli chiarisce nella conversazione con Anatol Jakovski che fu pubblicata dalla rivista “Arts de France” nel 1946. Egli, infatti, non si contenta di «scomporre e di distruggere, ma inventa continuamente nuove anatomie, nuove architetture, nuove sintesi».
L’arte moderna riflette con Picasso sulla complessità della concezione estetica dell’arte antica, ma scopre, soprattutto, attraverso l’arte primitiva che egli valorizzò e incluse, per così dire, nel suo repertorio, la relatività del vedere e del conoscere in relazione allo spazio-tempo e alla propria conoscenza e intuizione.
Ciò che nelle culture primitive, e nell’arte africana in particolare, appare come ingenuità o irrazionalità, diventa, infatti, nelle sue opere, raffinatezza espressiva. Attraverso l’analisi cubista del “reale” e l’intuizione di un universo suggerito dal simbolismo e dal surrealismo, Picasso propone alla percezione visiva una rappresentazione del mondo che scompagina l’ordine prestabilito e pone la libertà come fondamento dell’arte che canti la libertà dell’uomo, affermando l’utopia della pace universale e opponendosi alle guerre e alla violenza.
Le due opere uniche in mostra, presentate per la prima volta a Palermo, sono, in questo senso, emblematiche poiché riaffermano il tema dell’amore e, sia nella sinuosa china de L’abbraccio che nel delicato gesto dell’uomo affidato alla matita e al carboncino della coppia Homme e femme che datano del ’69, ripropongono, in una sintesi straordinaria quegli aspetti della grafica picassiana che hanno sempre fatto da contrappunto a tutte le sue opere pittoriche, mentre la ceramica col simbolo della colomba fa da pendant al famoso manifesto del Congrès mondial pour le désarmement général et la paix che è del 1962.
Si tratta di uno dei tre linoleum che, insieme alle altre incisioni all’acquatinta, all’acquaforte e a puntasecca, ci parlano della estrosa essenzialità raggiunta dal pittore e del suo universo, nel quale la matrice iberica e la cultura francese si sposano felicemente col respiro internazionale della civiltà del XX secolo, costituendo una nuova classicità che sa giocare con gli elementi arcaici e barocchi. Essa suggerisce una ironica monumentalità dove erotismo e sensualità riconducono all’uomo, all’amore e alla quotidianità del vivere, esorcizzando la morte e il dolore con il sorriso di un segno che trascende il tempo e lo stesso spazio della rappresentazione grafica.
Sbalordiscono ancora i ritratti che richiamano in certi particolari quello di Nusch, la seconda moglie di Paul Eluard, e quello di Lee Miller, l’amica di Man Ray, le composizioni con uomini e cavalli, le coppie con donne avvolgenti come piovre, suonatori, fumatori e cavalieri e le due litografie a colori Torero y Señorita e il Ritratto di moschettiere, rispettivamente del ’60 e del ’69, che rimandano indietro nel tempo e, tuttavia, sembrano profetizzare incalcolabili futuri della follia umana.
Non può non tornare alla mente quella notazione di Argan quando, parlando di spazio oggettivo e di spazio psicologico, sosteneva che «la sua forma non ha nulla di canonico ma è una innovazione e una invenzione continua» e che «un quadro di Picasso è sempre un conflitto che si combatte sotto gli occhi sgomenti di chi lo guarda». Così, anche in queste opere dell’ultimo Picasso, la retorica altissima della finzione sa riportare al teatro del mondo e creare il miracolo del vedere oltre il segno.
Ciò che più affascina in un’opera d’arte è, certamente, il fatto che essa si rivela sempre nuova ogni volta che la si riveda o la si riascolti.
In fondo, pittura o scultura, architettura o musica, quando diciamo poesia, intendiamo riferirci proprio a quella sottile ambiguità per la quale un oggetto estetico sa dilatarsi oltre gli stessi confini della sua forma ed esprimere una relazione con l’universo dal quale è nato e nel quale si propone come “realtà altra” rispetto alla Natura. La percezione sinestetica del mondo è, del resto, una dimensione variabile e limitata poiché è legata ad appena cinque sensi, attraverso i quali ci è dato conoscere, ma solo approssimativamente, un universo che oggi intuiamo, ben più complesso rispetto alla stessa concezione del macrocosmo e del microcosmo che pure ha rappresentato fino a ieri l’esperienza scientifica più avanzata della mente umana.
La logica della ragione e quella della scienza si sono giovate però dell’intuizione, di quella facoltà dell’intelletto che procede analogicamente e costruisce mondi e universi possibili nella cui fantastica ambiguità risiede appunto la capacità creativa e “poietica” dell’artista che, come profeta, vate, o veggente, ha contribuito dialetticamente alla conoscenza e all’approfondimento di quel sapere umano rimesso in questione da Einstein all’inizio del secolo scorso. Anche in queste opere della mostra, il segno di Picasso sembra giocare a far coincidere gli opposti. Sfida ogni logica e ogni altra percezione che non sia pronta a mettersi in discussione. Ripropone al nostro tempo l’ambiguità del vedere e del conoscere richiamando, forse senza volerlo, alla nostra riflessione quella immagine che nel medievale Libro dei ventiquattro filosofi tenta di definire Dio immaginando «una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
Gertrude Stein e Fernande Olivier hanno raccontato, ciascuna a suo modo, quel che accadde nello studio di Picasso in rue Ravignan a Montmartre, nell’autunno del 1908, quando il ventisettenne pittore invitò tutti gli amici per un banchetto in onore di Rousseau il Doganiere, pittore che egli apprezzava e del quale aveva anche acquistato per cinque franchi il grande Ritratto di Yadvigha che era stato esposto al Salon des Indépendents nel 1896 per finire poi nella bottega del rigattiere père Soulier dove egli l’aveva appunto scoperto.
La mitica festa fu fatta in occasione della collocazione di quel quadro nello studio del Bateau-Lavoir di cui ha lasciato una immagine abbastanza fauve il cugino dello stesso Picasso, Manuel Blasco, che vi ha dipinto tutti gli intervenuti segnandone anche i nomi in un cartiglio retto da due topini neri tra due volute fitomorfe che nascondono un gatto nero e un cagnetto bianco.
Il quadro è intitolato Honneur à Rousseau e, tra i tanti particolari minuziosi che descrivono l’arredo, il festeggiato col suo strumento musicale al centro del convito e gli ospiti che affollano la grande tavola imbandita, si notano, inoltre, appoggiati alla parete destra della stanza addobbata con serti e bandiere, due quadri dello stesso anfitrione seduto alla destra dell’ospite d’onore.
Vi si riconoscono Uomo e cavallo del periodo blu e Les Demoiselles d’Avigon oggi conservato al Museum of Modern Art di New York e considerato, giustamente, la pietra miliare di tutta la pittura contemporanea poiché vi si mettono in gioco cubismo e surrealismo, espressionismo e arte primitiva, fauvismo e classicismo, arte egizia, espressionismo e quant’altro si è sperimentato in arte nel corso del XX secolo di cui Picasso è stato protagonista con la sua incredibile creatività e un linguaggio capace di rinnovarsi continuamente restando fedele alla sua ansia conoscitiva ed espressiva che ha dato forma allo spazio e una nuova dimensione al colore anche quando esso si riduce al bianco e al nero dei disegni e delle incisioni.
Iniziato nell’anno precedente, il quadro che originariamente era stato intitolato Le bordel philosophique era ancora in cantiere e vi sarebbe rimasto per parecchi altri anni (ma, come sappiamo, rivolto contro la parete dello studio) poiché, per la sua lunga e complessa vicenda compositiva, avrebbe subìto molti ripensamenti, restando l’incompiuto più famoso del ‘900, fino ad assumere il ruolo di manifesto della “poetica della forma picassiana”, del suo particolare cubismo e di quel suo surrealismo ante litteram che, intrecciandosi imprevedibilmente nel divenire della sua coscienza della visione, diventano l’alfabeto chiave del suo linguaggio e delle sue iperboliche variazioni e invenzioni cui quasi tutta l’arte contemporanea è debitrice.
Non era certo un caso se tra i presenti, in quell’ormai leggendario banchetto “fotografato” dal dipinto di Blasco, ci fossero anche Braque e Apollinaire, Max Jacob, André Salmon, Jacques Vailard e più di venti altri artisti e intellettuali che vivevano a Parigi, allora punto di riferimento della cultura internazionale.
Non a caso i biografi dei due pittori citano l’episodio e molti critici vi si riferiscono quando intendono ricostruire l’ambiente nel quale esplose la lezione di Cèzanne e si prospettò quel nuovo linguaggio che Picasso elaborò autonomamente e conservò nel corso della sua lunga esperienza di pittore, disegnatore, incisore, scultore che, anche nella grafica e nella ceramica, ha lasciato una eredità ancora non del tutto compresa nelle sue valenze e significazioni rispetto all’estrosa ripetitività, alla vastità della sua produzione e alla versatilità del suo segno inconfondibile e sconcertante.
Congrès Mondial. Moscou, litografia 1962.
Osservando da vicino le trentatré opere raccolte dal Centro d’arte Raffaello di Palermo, ed esposte oggi nel piano nobile di Villa Niscemi, è possibile verificare la sconcertante modernità di questo suo segno che è insieme visionarietà e forza immaginifica proiettata nel divenire della coscienza estetica contemporanea, e si può cogliere, tra ironia, erotismo, demistificazione e denuncia, il messaggio atemporale che il quasi novantenne pittore (la maggior parte delle opere sono del 1968 e una del marzo 1971) sa ancora trasmettere, con immutata vitalità e coerenza poetica, la sua verità di artista non convenzionale che ha fatto della sua pittura una bandiera di libertà. Il riferimento al “quadro del banchetto” nasce, comunque, dal fatto che in quell’occasione Rousseau, rivolgendosi all’amico che tanto lo onorava, ebbe a dire: «Picasso, lei e io siamo i più grandi pittori del nostro tempo. Lei nel genere egizio, io nel moderno». Una frase bizzarra che ancora oggi resta poco chiara a chi non abbia osservato che proprio il personaggio del marinaio che sta al centro della tela delle Demoiselles e quello seminascosto dalla tenda sono rappresentati alla maniera delle figure dipinte nelle tombe dell’antico Egitto.
Certamente la risata dovette essere generale, ma non so quanto condivisa l’affermazione del Doganiere da parte degli altri convitati. Comunque, ingenuità o boutade che fosse, il giudizio critico di quel “pittore della domenica” poteva certo riferirsi alla incomprensibilità apparente dell’opera di Picasso che così si apparentava ai geroglifici egiziani graficamente semplici e inaccessibili, razionalmente chiari ma ambiguamente figurativi. Poteva, però, anche alludere alla distruzione totale di quella prospettiva classica che, come affermava lo stesso Picasso, non rappresentava il noto e la totalità ma l’apparente realtà percepita secondo una visione univoca e naturalisticamente imitativa. Il processo era già iniziato con Cézanne e le sue idee rivoluzionarie di spazio e forma e, per quanto riguardava il colore, sulla scia di Van Gogh e Gauguin da Matisse e dai Fauves; ma solo l’ardente pittore spagnolo brucerà nel rogo della sua originale esperienza ogni divario e ogni possibile formulazione teorica che possa distinguere nella sua opera le varie componenti che determinano l’unicità del suo stile e la complessa semplicità della sua poetica che, come la teoria della relatività di Einstein, legge e dilata l’universo della rappresentazione con una logica altra e una geniale intuizione destabilizzante e creativamente aperta al divenire dell’arte e della storia umana.
Dalle Demoiselles in poi, i due versanti della rivoluzione pittorica trovano, infatti, in Picasso il ricercatore e il cantore instancabile di quella verità umana, espressa con la sua originale sintesi estetica che coincide con l’evolversi stesso della sua arte capace di rappresentarla nelle sue contraddizioni e lacerazioni, compresi i ritorni, gli errori e la continua rimessa in gioco dei risultati raggiunti, di fronte ad una verità sempre nuova e mutevole che sa nascondersi nelle forme in cui appare .
Ricordiamo tutti l’icastica dichiarazione del pittore: “L’arte è una menzogna che ci fa comprendere la verità”, ma bisogna aggiungere, come corollario indispensabile, che Picasso ha sempre dipinto, disegnato o scolpito ciò che ha visto e sentito, mutandosi continuamente secondo il flusso vitale in cui scorre la verità stessa «o almeno quella verità che siamo in grado di comprendere», come egli chiarisce nella conversazione con Anatol Jakovski che fu pubblicata dalla rivista “Arts de France” nel 1946. Egli, infatti, non si contenta di «scomporre e di distruggere, ma inventa continuamente nuove anatomie, nuove architetture, nuove sintesi».
L’arte moderna riflette con Picasso sulla complessità della concezione estetica dell’arte antica, ma scopre, soprattutto, attraverso l’arte primitiva che egli valorizzò e incluse, per così dire, nel suo repertorio, la relatività del vedere e del conoscere in relazione allo spazio-tempo e alla propria conoscenza e intuizione.
Ciò che nelle culture primitive, e nell’arte africana in particolare, appare come ingenuità o irrazionalità, diventa, infatti, nelle sue opere, raffinatezza espressiva. Attraverso l’analisi cubista del “reale” e l’intuizione di un universo suggerito dal simbolismo e dal surrealismo, Picasso propone alla percezione visiva una rappresentazione del mondo che scompagina l’ordine prestabilito e pone la libertà come fondamento dell’arte che canti la libertà dell’uomo, affermando l’utopia della pace universale e opponendosi alle guerre e alla violenza.
Le due opere uniche in mostra, presentate per la prima volta a Palermo, sono, in questo senso, emblematiche poiché riaffermano il tema dell’amore e, sia nella sinuosa china de L’abbraccio che nel delicato gesto dell’uomo affidato alla matita e al carboncino della coppia Homme e femme che datano del ’69, ripropongono, in una sintesi straordinaria quegli aspetti della grafica picassiana che hanno sempre fatto da contrappunto a tutte le sue opere pittoriche, mentre la ceramica col simbolo della colomba fa da pendant al famoso manifesto del Congrès mondial pour le désarmement général et la paix che è del 1962.
Si tratta di uno dei tre linoleum che, insieme alle altre incisioni all’acquatinta, all’acquaforte e a puntasecca, ci parlano della estrosa essenzialità raggiunta dal pittore e del suo universo, nel quale la matrice iberica e la cultura francese si sposano felicemente col respiro internazionale della civiltà del XX secolo, costituendo una nuova classicità che sa giocare con gli elementi arcaici e barocchi. Essa suggerisce una ironica monumentalità dove erotismo e sensualità riconducono all’uomo, all’amore e alla quotidianità del vivere, esorcizzando la morte e il dolore con il sorriso di un segno che trascende il tempo e lo stesso spazio della rappresentazione grafica.
Sbalordiscono ancora i ritratti che richiamano in certi particolari quello di Nusch, la seconda moglie di Paul Eluard, e quello di Lee Miller, l’amica di Man Ray, le composizioni con uomini e cavalli, le coppie con donne avvolgenti come piovre, suonatori, fumatori e cavalieri e le due litografie a colori Torero y Señorita e il Ritratto di moschettiere, rispettivamente del ’60 e del ’69, che rimandano indietro nel tempo e, tuttavia, sembrano profetizzare incalcolabili futuri della follia umana.
Non può non tornare alla mente quella notazione di Argan quando, parlando di spazio oggettivo e di spazio psicologico, sosteneva che «la sua forma non ha nulla di canonico ma è una innovazione e una invenzione continua» e che «un quadro di Picasso è sempre un conflitto che si combatte sotto gli occhi sgomenti di chi lo guarda». Così, anche in queste opere dell’ultimo Picasso, la retorica altissima della finzione sa riportare al teatro del mondo e creare il miracolo del vedere oltre il segno.
Ciò che più affascina in un’opera d’arte è, certamente, il fatto che essa si rivela sempre nuova ogni volta che la si riveda o la si riascolti.
In fondo, pittura o scultura, architettura o musica, quando diciamo poesia, intendiamo riferirci proprio a quella sottile ambiguità per la quale un oggetto estetico sa dilatarsi oltre gli stessi confini della sua forma ed esprimere una relazione con l’universo dal quale è nato e nel quale si propone come “realtà altra” rispetto alla Natura. La percezione sinestetica del mondo è, del resto, una dimensione variabile e limitata poiché è legata ad appena cinque sensi, attraverso i quali ci è dato conoscere, ma solo approssimativamente, un universo che oggi intuiamo, ben più complesso rispetto alla stessa concezione del macrocosmo e del microcosmo che pure ha rappresentato fino a ieri l’esperienza scientifica più avanzata della mente umana.
La logica della ragione e quella della scienza si sono giovate però dell’intuizione, di quella facoltà dell’intelletto che procede analogicamente e costruisce mondi e universi possibili nella cui fantastica ambiguità risiede appunto la capacità creativa e “poietica” dell’artista che, come profeta, vate, o veggente, ha contribuito dialetticamente alla conoscenza e all’approfondimento di quel sapere umano rimesso in questione da Einstein all’inizio del secolo scorso. Anche in queste opere della mostra, il segno di Picasso sembra giocare a far coincidere gli opposti. Sfida ogni logica e ogni altra percezione che non sia pronta a mettersi in discussione. Ripropone al nostro tempo l’ambiguità del vedere e del conoscere richiamando, forse senza volerlo, alla nostra riflessione quella immagine che nel medievale Libro dei ventiquattro filosofi tenta di definire Dio immaginando «una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
Gertrude Stein e Fernande Olivier hanno raccontato, ciascuna a suo modo, quel che accadde nello studio di Picasso in rue Ravignan a Montmartre, nell’autunno del 1908, quando il ventisettenne pittore invitò tutti gli amici per un banchetto in onore di Rousseau il Doganiere, pittore che egli apprezzava e del quale aveva anche acquistato per cinque franchi il grande Ritratto di Yadvigha che era stato esposto al Salon des Indépendents nel 1896 per finire poi nella bottega del rigattiere père Soulier dove egli l’aveva appunto scoperto.
La mitica festa fu fatta in occasione della collocazione di quel quadro nello studio del Bateau-Lavoir di cui ha lasciato una immagine abbastanza fauve il cugino dello stesso Picasso, Manuel Blasco, che vi ha dipinto tutti gli intervenuti segnandone anche i nomi in un cartiglio retto da due topini neri tra due volute fitomorfe che nascondono un gatto nero e un cagnetto bianco.
Il quadro è intitolato Honneur à Rousseau e, tra i tanti particolari minuziosi che descrivono l’arredo, il festeggiato col suo strumento musicale al centro del convito e gli ospiti che affollano la grande tavola imbandita, si notano, inoltre, appoggiati alla parete destra della stanza addobbata con serti e bandiere, due quadri dello stesso anfitrione seduto alla destra dell’ospite d’onore.
Vi si riconoscono Uomo e cavallo del periodo blu e Les Demoiselles d’Avigon oggi conservato al Museum of Modern Art di New York e considerato, giustamente, la pietra miliare di tutta la pittura contemporanea poiché vi si mettono in gioco cubismo e surrealismo, espressionismo e arte primitiva, fauvismo e classicismo, arte egizia, espressionismo e quant’altro si è sperimentato in arte nel corso del XX secolo di cui Picasso è stato protagonista con la sua incredibile creatività e un linguaggio capace di rinnovarsi continuamente restando fedele alla sua ansia conoscitiva ed espressiva che ha dato forma allo spazio e una nuova dimensione al colore anche quando esso si riduce al bianco e al nero dei disegni e delle incisioni.
Iniziato nell’anno precedente, il quadro che originariamente era stato intitolato Le bordel philosophique era ancora in cantiere e vi sarebbe rimasto per parecchi altri anni (ma, come sappiamo, rivolto contro la parete dello studio) poiché, per la sua lunga e complessa vicenda compositiva, avrebbe subìto molti ripensamenti, restando l’incompiuto più famoso del ‘900, fino ad assumere il ruolo di manifesto della “poetica della forma picassiana”, del suo particolare cubismo e di quel suo surrealismo ante litteram che, intrecciandosi imprevedibilmente nel divenire della sua coscienza della visione, diventano l’alfabeto chiave del suo linguaggio e delle sue iperboliche variazioni e invenzioni cui quasi tutta l’arte contemporanea è debitrice.
Non era certo un caso se tra i presenti, in quell’ormai leggendario banchetto “fotografato” dal dipinto di Blasco, ci fossero anche Braque e Apollinaire, Max Jacob, André Salmon, Jacques Vailard e più di venti altri artisti e intellettuali che vivevano a Parigi, allora punto di riferimento della cultura internazionale.
Non a caso i biografi dei due pittori citano l’episodio e molti critici vi si riferiscono quando intendono ricostruire l’ambiente nel quale esplose la lezione di Cèzanne e si prospettò quel nuovo linguaggio che Picasso elaborò autonomamente e conservò nel corso della sua lunga esperienza di pittore, disegnatore, incisore, scultore che, anche nella grafica e nella ceramica, ha lasciato una eredità ancora non del tutto compresa nelle sue valenze e significazioni rispetto all’estrosa ripetitività, alla vastità della sua produzione e alla versatilità del suo segno inconfondibile e sconcertante.
Congrès Mondial. Moscou, litografia 1962.
Osservando da vicino le trentatré opere raccolte dal Centro d’arte Raffaello di Palermo, ed esposte oggi nel piano nobile di Villa Niscemi, è possibile verificare la sconcertante modernità di questo suo segno che è insieme visionarietà e forza immaginifica proiettata nel divenire della coscienza estetica contemporanea, e si può cogliere, tra ironia, erotismo, demistificazione e denuncia, il messaggio atemporale che il quasi novantenne pittore (la maggior parte delle opere sono del 1968 e una del marzo 1971) sa ancora trasmettere, con immutata vitalità e coerenza poetica, la sua verità di artista non convenzionale che ha fatto della sua pittura una bandiera di libertà. Il riferimento al “quadro del banchetto” nasce, comunque, dal fatto che in quell’occasione Rousseau, rivolgendosi all’amico che tanto lo onorava, ebbe a dire: «Picasso, lei e io siamo i più grandi pittori del nostro tempo. Lei nel genere egizio, io nel moderno». Una frase bizzarra che ancora oggi resta poco chiara a chi non abbia osservato che proprio il personaggio del marinaio che sta al centro della tela delle Demoiselles e quello seminascosto dalla tenda sono rappresentati alla maniera delle figure dipinte nelle tombe dell’antico Egitto.
Certamente la risata dovette essere generale, ma non so quanto condivisa l’affermazione del Doganiere da parte degli altri convitati. Comunque, ingenuità o boutade che fosse, il giudizio critico di quel “pittore della domenica” poteva certo riferirsi alla incomprensibilità apparente dell’opera di Picasso che così si apparentava ai geroglifici egiziani graficamente semplici e inaccessibili, razionalmente chiari ma ambiguamente figurativi. Poteva, però, anche alludere alla distruzione totale di quella prospettiva classica che, come affermava lo stesso Picasso, non rappresentava il noto e la totalità ma l’apparente realtà percepita secondo una visione univoca e naturalisticamente imitativa. Il processo era già iniziato con Cézanne e le sue idee rivoluzionarie di spazio e forma e, per quanto riguardava il colore, sulla scia di Van Gogh e Gauguin da Matisse e dai Fauves; ma solo l’ardente pittore spagnolo brucerà nel rogo della sua originale esperienza ogni divario e ogni possibile formulazione teorica che possa distinguere nella sua opera le varie componenti che determinano l’unicità del suo stile e la complessa semplicità della sua poetica che, come la teoria della relatività di Einstein, legge e dilata l’universo della rappresentazione con una logica altra e una geniale intuizione destabilizzante e creativamente aperta al divenire dell’arte e della storia umana.
Dalle Demoiselles in poi, i due versanti della rivoluzione pittorica trovano, infatti, in Picasso il ricercatore e il cantore instancabile di quella verità umana, espressa con la sua originale sintesi estetica che coincide con l’evolversi stesso della sua arte capace di rappresentarla nelle sue contraddizioni e lacerazioni, compresi i ritorni, gli errori e la continua rimessa in gioco dei risultati raggiunti, di fronte ad una verità sempre nuova e mutevole che sa nascondersi nelle forme in cui appare .
Ricordiamo tutti l’icastica dichiarazione del pittore: “L’arte è una menzogna che ci fa comprendere la verità”, ma bisogna aggiungere, come corollario indispensabile, che Picasso ha sempre dipinto, disegnato o scolpito ciò che ha visto e sentito, mutandosi continuamente secondo il flusso vitale in cui scorre la verità stessa «o almeno quella verità che siamo in grado di comprendere», come egli chiarisce nella conversazione con Anatol Jakovski che fu pubblicata dalla rivista “Arts de France” nel 1946. Egli, infatti, non si contenta di «scomporre e di distruggere, ma inventa continuamente nuove anatomie, nuove architetture, nuove sintesi».
L’arte moderna riflette con Picasso sulla complessità della concezione estetica dell’arte antica, ma scopre, soprattutto, attraverso l’arte primitiva che egli valorizzò e incluse, per così dire, nel suo repertorio, la relatività del vedere e del conoscere in relazione allo spazio-tempo e alla propria conoscenza e intuizione.
Ciò che nelle culture primitive, e nell’arte africana in particolare, appare come ingenuità o irrazionalità, diventa, infatti, nelle sue opere, raffinatezza espressiva. Attraverso l’analisi cubista del “reale” e l’intuizione di un universo suggerito dal simbolismo e dal surrealismo, Picasso propone alla percezione visiva una rappresentazione del mondo che scompagina l’ordine prestabilito e pone la libertà come fondamento dell’arte che canti la libertà dell’uomo, affermando l’utopia della pace universale e opponendosi alle guerre e alla violenza.
Le due opere uniche in mostra, presentate per la prima volta a Palermo, sono, in questo senso, emblematiche poiché riaffermano il tema dell’amore e, sia nella sinuosa china de L’abbraccio che nel delicato gesto dell’uomo affidato alla matita e al carboncino della coppia Homme e femme che datano del ’69, ripropongono, in una sintesi straordinaria quegli aspetti della grafica picassiana che hanno sempre fatto da contrappunto a tutte le sue opere pittoriche, mentre la ceramica col simbolo della colomba fa da pendant al famoso manifesto del Congrès mondial pour le désarmement général et la paix che è del 1962.
Si tratta di uno dei tre linoleum che, insieme alle altre incisioni all’acquatinta, all’acquaforte e a puntasecca, ci parlano della estrosa essenzialità raggiunta dal pittore e del suo universo, nel quale la matrice iberica e la cultura francese si sposano felicemente col respiro internazionale della civiltà del XX secolo, costituendo una nuova classicità che sa giocare con gli elementi arcaici e barocchi. Essa suggerisce una ironica monumentalità dove erotismo e sensualità riconducono all’uomo, all’amore e alla quotidianità del vivere, esorcizzando la morte e il dolore con il sorriso di un segno che trascende il tempo e lo stesso spazio della rappresentazione grafica.
Sbalordiscono ancora i ritratti che richiamano in certi particolari quello di Nusch, la seconda moglie di Paul Eluard, e quello di Lee Miller, l’amica di Man Ray, le composizioni con uomini e cavalli, le coppie con donne avvolgenti come piovre, suonatori, fumatori e cavalieri e le due litografie a colori Torero y Señorita e il Ritratto di moschettiere, rispettivamente del ’60 e del ’69, che rimandano indietro nel tempo e, tuttavia, sembrano profetizzare incalcolabili futuri della follia umana.
Non può non tornare alla mente quella notazione di Argan quando, parlando di spazio oggettivo e di spazio psicologico, sosteneva che «la sua forma non ha nulla di canonico ma è una innovazione e una invenzione continua» e che «un quadro di Picasso è sempre un conflitto che si combatte sotto gli occhi sgomenti di chi lo guarda». Così, anche in queste opere dell’ultimo Picasso, la retorica altissima della finzione sa riportare al teatro del mondo e creare il miracolo del vedere oltre il segno.
Ciò che più affascina in un’opera d’arte è, certamente, il fatto che essa si rivela sempre nuova ogni volta che la si riveda o la si riascolti.
In fondo, pittura o scultura, architettura o musica, quando diciamo poesia, intendiamo riferirci proprio a quella sottile ambiguità per la quale un oggetto estetico sa dilatarsi oltre gli stessi confini della sua forma ed esprimere una relazione con l’universo dal quale è nato e nel quale si propone come “realtà altra” rispetto alla Natura. La percezione sinestetica del mondo è, del resto, una dimensione variabile e limitata poiché è legata ad appena cinque sensi, attraverso i quali ci è dato conoscere, ma solo approssimativamente, un universo che oggi intuiamo, ben più complesso rispetto alla stessa concezione del macrocosmo e del microcosmo che pure ha rappresentato fino a ieri l’esperienza scientifica più avanzata della mente umana.
La logica della ragione e quella della scienza si sono giovate però dell’intuizione, di quella facoltà dell’intelletto che procede analogicamente e costruisce mondi e universi possibili nella cui fantastica ambiguità risiede appunto la capacità creativa e “poietica” dell’artista che, come profeta, vate, o veggente, ha contribuito dialetticamente alla conoscenza e all’approfondimento di quel sapere umano rimesso in questione da Einstein all’inizio del secolo scorso. Anche in queste opere della mostra, il segno di Picasso sembra giocare a far coincidere gli opposti. Sfida ogni logica e ogni altra percezione che non sia pronta a mettersi in discussione. Ripropone al nostro tempo l’ambiguità del vedere e del conoscere richiamando, forse senza volerlo, alla nostra riflessione quella immagine che nel medievale Libro dei ventiquattro filosofi tenta di definire Dio immaginando «una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
Gertrude Stein e Fernande Olivier hanno raccontato, ciascuna a suo modo, quel che accadde nello studio di Picasso in rue Ravignan a Montmartre, nell’autunno del 1908, quando il ventisettenne pittore invitò tutti gli amici per un banchetto in onore di Rousseau il Doganiere, pittore che egli apprezzava e del quale aveva anche acquistato per cinque franchi il grande Ritratto di Yadvigha che era stato esposto al Salon des Indépendents nel 1896 per finire poi nella bottega del rigattiere père Soulier dove egli l’aveva appunto scoperto.
La mitica festa fu fatta in occasione della collocazione di quel quadro nello studio del Bateau-Lavoir di cui ha lasciato una immagine abbastanza fauve il cugino dello stesso Picasso, Manuel Blasco, che vi ha dipinto tutti gli intervenuti segnandone anche i nomi in un cartiglio retto da due topini neri tra due volute fitomorfe che nascondono un gatto nero e un cagnetto bianco.
Il quadro è intitolato Honneur à Rousseau e, tra i tanti particolari minuziosi che descrivono l’arredo, il festeggiato col suo strumento musicale al centro del convito e gli ospiti che affollano la grande tavola imbandita, si notano, inoltre, appoggiati alla parete destra della stanza addobbata con serti e bandiere, due quadri dello stesso anfitrione seduto alla destra dell’ospite d’onore.
Vi si riconoscono Uomo e cavallo del periodo blu e Les Demoiselles d’Avigon oggi conservato al Museum of Modern Art di New York e considerato, giustamente, la pietra miliare di tutta la pittura contemporanea poiché vi si mettono in gioco cubismo e surrealismo, espressionismo e arte primitiva, fauvismo e classicismo, arte egizia, espressionismo e quant’altro si è sperimentato in arte nel corso del XX secolo di cui Picasso è stato protagonista con la sua incredibile creatività e un linguaggio capace di rinnovarsi continuamente restando fedele alla sua ansia conoscitiva ed espressiva che ha dato forma allo spazio e una nuova dimensione al colore anche quando esso si riduce al bianco e al nero dei disegni e delle incisioni.
Iniziato nell’anno precedente, il quadro che originariamente era stato intitolato Le bordel philosophique era ancora in cantiere e vi sarebbe rimasto per parecchi altri anni (ma, come sappiamo, rivolto contro la parete dello studio) poiché, per la sua lunga e complessa vicenda compositiva, avrebbe subìto molti ripensamenti, restando l’incompiuto più famoso del ‘900, fino ad assumere il ruolo di manifesto della “poetica della forma picassiana”, del suo particolare cubismo e di quel suo surrealismo ante litteram che, intrecciandosi imprevedibilmente nel divenire della sua coscienza della visione, diventano l’alfabeto chiave del suo linguaggio e delle sue iperboliche variazioni e invenzioni cui quasi tutta l’arte contemporanea è debitrice.
Non era certo un caso se tra i presenti, in quell’ormai leggendario banchetto “fotografato” dal dipinto di Blasco, ci fossero anche Braque e Apollinaire, Max Jacob, André Salmon, Jacques Vailard e più di venti altri artisti e intellettuali che vivevano a Parigi, allora punto di riferimento della cultura internazionale.
Non a caso i biografi dei due pittori citano l’episodio e molti critici vi si riferiscono quando intendono ricostruire l’ambiente nel quale esplose la lezione di Cèzanne e si prospettò quel nuovo linguaggio che Picasso elaborò autonomamente e conservò nel corso della sua lunga esperienza di pittore, disegnatore, incisore, scultore che, anche nella grafica e nella ceramica, ha lasciato una eredità ancora non del tutto compresa nelle sue valenze e significazioni rispetto all’estrosa ripetitività, alla vastità della sua produzione e alla versatilità del suo segno inconfondibile e sconcertante.
Congrès Mondial. Moscou, litografia 1962.
Osservando da vicino le trentatré opere raccolte dal Centro d’arte Raffaello di Palermo, ed esposte oggi nel piano nobile di Villa Niscemi, è possibile verificare la sconcertante modernità di questo suo segno che è insieme visionarietà e forza immaginifica proiettata nel divenire della coscienza estetica contemporanea, e si può cogliere, tra ironia, erotismo, demistificazione e denuncia, il messaggio atemporale che il quasi novantenne pittore (la maggior parte delle opere sono del 1968 e una del marzo 1971) sa ancora trasmettere, con immutata vitalità e coerenza poetica, la sua verità di artista non convenzionale che ha fatto della sua pittura una bandiera di libertà. Il riferimento al “quadro del banchetto” nasce, comunque, dal fatto che in quell’occasione Rousseau, rivolgendosi all’amico che tanto lo onorava, ebbe a dire: «Picasso, lei e io siamo i più grandi pittori del nostro tempo. Lei nel genere egizio, io nel moderno». Una frase bizzarra che ancora oggi resta poco chiara a chi non abbia osservato che proprio il personaggio del marinaio che sta al centro della tela delle Demoiselles e quello seminascosto dalla tenda sono rappresentati alla maniera delle figure dipinte nelle tombe dell’antico Egitto.
Certamente la risata dovette essere generale, ma non so quanto condivisa l’affermazione del Doganiere da parte degli altri convitati. Comunque, ingenuità o boutade che fosse, il giudizio critico di quel “pittore della domenica” poteva certo riferirsi alla incomprensibilità apparente dell’opera di Picasso che così si apparentava ai geroglifici egiziani graficamente semplici e inaccessibili, razionalmente chiari ma ambiguamente figurativi. Poteva, però, anche alludere alla distruzione totale di quella prospettiva classica che, come affermava lo stesso Picasso, non rappresentava il noto e la totalità ma l’apparente realtà percepita secondo una visione univoca e naturalisticamente imitativa. Il processo era già iniziato con Cézanne e le sue idee rivoluzionarie di spazio e forma e, per quanto riguardava il colore, sulla scia di Van Gogh e Gauguin da Matisse e dai Fauves; ma solo l’ardente pittore spagnolo brucerà nel rogo della sua originale esperienza ogni divario e ogni possibile formulazione teorica che possa distinguere nella sua opera le varie componenti che determinano l’unicità del suo stile e la complessa semplicità della sua poetica che, come la teoria della relatività di Einstein, legge e dilata l’universo della rappresentazione con una logica altra e una geniale intuizione destabilizzante e creativamente aperta al divenire dell’arte e della storia umana.
Dalle Demoiselles in poi, i due versanti della rivoluzione pittorica trovano, infatti, in Picasso il ricercatore e il cantore instancabile di quella verità umana, espressa con la sua originale sintesi estetica che coincide con l’evolversi stesso della sua arte capace di rappresentarla nelle sue contraddizioni e lacerazioni, compresi i ritorni, gli errori e la continua rimessa in gioco dei risultati raggiunti, di fronte ad una verità sempre nuova e mutevole che sa nascondersi nelle forme in cui appare .
Ricordiamo tutti l’icastica dichiarazione del pittore: “L’arte è una menzogna che ci fa comprendere la verità”, ma bisogna aggiungere, come corollario indispensabile, che Picasso ha sempre dipinto, disegnato o scolpito ciò che ha visto e sentito, mutandosi continuamente secondo il flusso vitale in cui scorre la verità stessa «o almeno quella verità che siamo in grado di comprendere», come egli chiarisce nella conversazione con Anatol Jakovski che fu pubblicata dalla rivista “Arts de France” nel 1946. Egli, infatti, non si contenta di «scomporre e di distruggere, ma inventa continuamente nuove anatomie, nuove architetture, nuove sintesi».
L’arte moderna riflette con Picasso sulla complessità della concezione estetica dell’arte antica, ma scopre, soprattutto, attraverso l’arte primitiva che egli valorizzò e incluse, per così dire, nel suo repertorio, la relatività del vedere e del conoscere in relazione allo spazio-tempo e alla propria conoscenza e intuizione.
Ciò che nelle culture primitive, e nell’arte africana in particolare, appare come ingenuità o irrazionalità, diventa, infatti, nelle sue opere, raffinatezza espressiva. Attraverso l’analisi cubista del “reale” e l’intuizione di un universo suggerito dal simbolismo e dal surrealismo, Picasso propone alla percezione visiva una rappresentazione del mondo che scompagina l’ordine prestabilito e pone la libertà come fondamento dell’arte che canti la libertà dell’uomo, affermando l’utopia della pace universale e opponendosi alle guerre e alla violenza.
Le due opere uniche in mostra, presentate per la prima volta a Palermo, sono, in questo senso, emblematiche poiché riaffermano il tema dell’amore e, sia nella sinuosa china de L’abbraccio che nel delicato gesto dell’uomo affidato alla matita e al carboncino della coppia Homme e femme che datano del ’69, ripropongono, in una sintesi straordinaria quegli aspetti della grafica picassiana che hanno sempre fatto da contrappunto a tutte le sue opere pittoriche, mentre la ceramica col simbolo della colomba fa da pendant al famoso manifesto del Congrès mondial pour le désarmement général et la paix che è del 1962.
Si tratta di uno dei tre linoleum che, insieme alle altre incisioni all’acquatinta, all’acquaforte e a puntasecca, ci parlano della estrosa essenzialità raggiunta dal pittore e del suo universo, nel quale la matrice iberica e la cultura francese si sposano felicemente col respiro internazionale della civiltà del XX secolo, costituendo una nuova classicità che sa giocare con gli elementi arcaici e barocchi. Essa suggerisce una ironica monumentalità dove erotismo e sensualità riconducono all’uomo, all’amore e alla quotidianità del vivere, esorcizzando la morte e il dolore con il sorriso di un segno che trascende il tempo e lo stesso spazio della rappresentazione grafica.
Sbalordiscono ancora i ritratti che richiamano in certi particolari quello di Nusch, la seconda moglie di Paul Eluard, e quello di Lee Miller, l’amica di Man Ray, le composizioni con uomini e cavalli, le coppie con donne avvolgenti come piovre, suonatori, fumatori e cavalieri e le due litografie a colori Torero y Señorita e il Ritratto di moschettiere, rispettivamente del ’60 e del ’69, che rimandano indietro nel tempo e, tuttavia, sembrano profetizzare incalcolabili futuri della follia umana.
Non può non tornare alla mente quella notazione di Argan quando, parlando di spazio oggettivo e di spazio psicologico, sosteneva che «la sua forma non ha nulla di canonico ma è una innovazione e una invenzione continua» e che «un quadro di Picasso è sempre un conflitto che si combatte sotto gli occhi sgomenti di chi lo guarda». Così, anche in queste opere dell’ultimo Picasso, la retorica altissima della finzione sa riportare al teatro del mondo e creare il miracolo del vedere oltre il segno.
Ciò che più affascina in un’opera d’arte è, certamente, il fatto che essa si rivela sempre nuova ogni volta che la si riveda o la si riascolti.
In fondo, pittura o scultura, architettura o musica, quando diciamo poesia, intendiamo riferirci proprio a quella sottile ambiguità per la quale un oggetto estetico sa dilatarsi oltre gli stessi confini della sua forma ed esprimere una relazione con l’universo dal quale è nato e nel quale si propone come “realtà altra” rispetto alla Natura. La percezione sinestetica del mondo è, del resto, una dimensione variabile e limitata poiché è legata ad appena cinque sensi, attraverso i quali ci è dato conoscere, ma solo approssimativamente, un universo che oggi intuiamo, ben più complesso rispetto alla stessa concezione del macrocosmo e del microcosmo che pure ha rappresentato fino a ieri l’esperienza scientifica più avanzata della mente umana.
La logica della ragione e quella della scienza si sono giovate però dell’intuizione, di quella facoltà dell’intelletto che procede analogicamente e costruisce mondi e universi possibili nella cui fantastica ambiguità risiede appunto la capacità creativa e “poietica” dell’artista che, come profeta, vate, o veggente, ha contribuito dialetticamente alla conoscenza e all’approfondimento di quel sapere umano rimesso in questione da Einstein all’inizio del secolo scorso. Anche in queste opere della mostra, il segno di Picasso sembra giocare a far coincidere gli opposti. Sfida ogni logica e ogni altra percezione che non sia pronta a mettersi in discussione. Ripropone al nostro tempo l’ambiguità del vedere e del conoscere richiamando, forse senza volerlo, alla nostra riflessione quella immagine che nel medievale Libro dei ventiquattro filosofi tenta di definire Dio immaginando «una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
23 Avr 2004, 09:39
23 Avr 2004, 09:43
23 Avr 2004, 10:06
jini future laureat de la dictee de Pivot?
23 Avr 2004, 10:07
Shinjuku a écrit:tu vois les poubelles sur ta bannière PMP?
Maintenant je sais pourquoi elles sont là
23 Avr 2004, 10:12
y a pas de S a "vas".
23 Avr 2004, 10:17
j'ai hesite j'avoue. Je suis pas persuade que l'on dise laureatE. Si qq pouvait confirmer ce serait sympaLeTrepied a écrit:jini future laureat de la dictee de Pivot?
LauréatE peut être, car il semble que jini soit une madame et donc du sexe féminin, mais bon...
Un petit conseil, ne la fais pas la dictée de Pivot
23 Avr 2004, 10:23
23 Avr 2004, 10:24
Baioko, on en reparle sur du long terme. La PG a un vrai but elle, pas seulement de récupéré tous les rejetés comme ta STF
23 Avr 2004, 10:32
je te retourne cette phraseLeTrepied a écrit:Je ne vanne pas, bien au contraire, mais quand on est nul en orthographe, on évite de faire des remarques, camarade
23 Avr 2004, 10:34
je te retourne cette phraseLeTrepied a écrit:Je ne vanne pas, bien au contraire, mais quand on est nul en orthographe, on évite de faire des remarques, camarade
23 Avr 2004, 10:34
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